domenica, marzo 05, 2006

Non c'è pace senza giustizia e giustizia senza responsabilità

Caro Mario, facendo seguito al suo commento, Le vorrei dire che la "legge del più forte" è oggi, per nostra fortuna, quasi scomparsa anche se permangono forti tentazioni politiche da parte delle maggiori potenze mondali, USA in primis. Nel xx secolo l'umanità ha sofferto due Guerre mondiali, di cui la seconda ha imposto un altissimo numero di morti, soprattutto fra la gente comune. Come conseguenza di ciò, la Comunità internazionale, con l'istituzione dell'ONU, ha finalmente bandito la guerra fra gli stati (JUS AD BELLUM, eccetto due casi: quella intrapresa come legittima difesa e quella decisa dal Consiglio di sicurezza), sviluppato una serie di regole di diritto internazionale umanitartio con il fine di limitare al massimo grado gli effetti delle guerra una volta che questa fosse iniziata (JUS IN BELLO), creato le basi e le condizioni per la Decolonizzazone. Nel 1949 furono firmate e successivamente adottate dalla stragrande maggioranza degli stati, le quattro Convenzioni di Ginevra (e i Protocolli del 1977). Memori delle pratiche naziste (la Storia insegna!), nella quarta, relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra, l'articolo 49 par. 6 stabilisce testualmente che "la Potenza occupante non potrà procedere alla deportazione o al trasferimento di una parte della sua popolazione civile nel territorio da essa occupato". E' chiaro il collegamento con la politica di colonizzaizone israeliana nei Territori palestinesi. In aggiunta, la Comunità internazionale si è dotata di altri strumenti per la repressione di crimini internazionali (le Corti per la ex-Jugoslavia e il Ruanda, sebbene ex post facto), significativamente dopo la fine della Guerra fredda. Soprattutto, la recente Corte Penale Internazionale permanente è stata creata per combattere l'impunità e come forma di deterrenza verso future violazioni del diritto internazionale (genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra e, una volta definito, crimine d'aggressione). Come vede Mario, tutto questo lavoro è stato fatto proprio per svuotare il principio (e la relativa pratica) della "legge del più forte" e rafforzare la legalità in ambito internazionale. L'indirizzo è più che giusto anche se rimane molto da fare. Non c'è pace senza giustizia e giustizia senza responsabilità. L'atteggiamento del diritto internazionale contemporaneo cerca proprio di porre la responsabilità di stati e individui davanti alle violazioni e crimini passati e, di consegueza, evitarne di futuri.

mercoledì, marzo 01, 2006

Israele e i diritti del popolo palestinese

In un momento particolarmente importante per gli sviluppi del conflitto arabo-israeliano, in cui tutti i più importanti interlocutori internazionali coinvolti nel processo diplomatico (Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite) esercitano, a vario modo e tramite le tradizionali leve di influenza, forti pressioni sul movimento di HAMAS affinché si impegni a riconoscere lo stato d'Israele, a rispettare tutti gli accordi stipulati precedentemente con esso e rinunci alla violenza, vorrei fare alcune considerazioni su come e se lo stato ebraico riconosca i diritti fondamentali dei palestinesi. Dal 1948 fino ad oggi, uno stato palestinese non esiste e i diritti del suo popolo sono continuamente violati e negati. Andando a ritroso nel tempo fino ai primi anni ‘20, la Società delle Nazioni e, dal 1945, le Nazioni Unite hanno avuto nella loro agenda internazionale la questione ebraica e palestinese, e quest’ultima è ancora all’ordine del giorno del Palazzo di Vetro. Diverse guerre si sono succedute con le inevitabili conseguenze di morte, distruzione, massacri e terrorismo da entrambe le parti. Nel giugno del 1967 l’esercito israeliano riuscì a “conquistare” in soli sei giorni grandi territori (Gerusalemme Est, West Bank, la striscia di Gaza, le alture del Golan e la penisola di Suez), ma la famosa Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, asse portante in tutti i futuri negoziati, ribadì il bando del verbo e dichiarò nel preambolo “l’inammissibilità dell’acquisizione del territorio con la guerra”, principio cardine del diritto internazionale contemporaneo, a prescindere dalla natura difensiva o meno della guerra. Da allora Israele è la potenza occupante e ancor oggi detiene lo stesso status verso la striscia di Gaza (anche dopo il recente “disimpegno” militare poiché mantiene il controllo sullo spazio aereo, sul mare e sui confini), la West Bank e il Golan. La totale rottura diplomatica "diretta" degli stati arabi nei confronti di Israele, affermata nella dichiarazione di Khartoum della Lega araba nel settembre 1967 (“no peace with Israel, no recognition with Israel, no negotiations with it”), la riluttanza israeliana a riconoscere un’entità politica nei territori palestinesi così come l’indifferenza e il disprezzo per le risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza ONU (cito soltanto la n° 446 e 465, per non parlare delle innumerevoli risoluzioni dell’Assemblea Generale), hanno portato l’impasse politica fino alla svolta del 1993 con gli Accordi di Oslo e il riconoscimento reciproco tra lo stato ebraico e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). E in tutto questo tempo cosa è successo nei Territori palestinesi? Dal 1993, data d’inizio del famoso e tanto decantato (e abusato) “processo di pace”, fino allo scoppio della terza intifada nel settembre del 2000, a quali cambiamenti abbiamo assistito? La risposta, o meglio, le risposte sono riposte nei numeri, difficili da interpretare: dall’occupazione nel 1967 e ancor più dal 1977 con la vittoria elettorale del Likud, i coloni israeliani sono ad oggi quasi mezzo milione (West Bank e Gerusalemme Est). Ora dobbiamo chiederci il significato di questo numero. Esso riflette una politica discriminatoria nei confronti della popolazione indigena, l’incessante confisca di terre, lo sfruttamento delle risorse naturali ad esclusivo uso dei coloni. In sostanza, si tratta della negazione del diritto di autodeterminazione espresso nella Carta ONU e dei diritti umani connessi. Una situazione che mette in serio pericolo, come molti studiosi sostengono, quella “visione” del 2002 del presidente Bush di una soluzione di compromesso che vede “two States, Israel and Palesatine, live side by side within secure and recognized borders” (Ris. 1397 – Consiglio di Sicurezza). Ogni governo dal 1967 in poi, con diversa intensità, ha promosso e incentivato la politica degli insediamenti di civili israeliani nei Territori palestinesi violando il diritto internazionale, e l’architetto principale è stato senza ombra di dubbio Ariel Sharon: il suo lungimirante scopo è sempre stato di incorporare maggior terra con la minor presenza di arabi e impedire la nascita di uno stato palestinese su un significativo territorio contiguo. In altre parole, si è avuto, e tuttora si ha, un costante mutamento dei “confini” israeliani rispetto alle frontiere stabilite negli accordi di armistizio del 1949. Persino Kissinger ha riconosciuto questo dato di fatto. A mio parere, la vittoria di HAMAS alle recenti elezioni palestinesi è l’elementare risultato di questa politica del fatto compiuto e degli errori israeliani passati, ma anche della latitanza della Comunità internazionale nel monitorare attentamente le azioni di Israele nei Territori e fare con forza pressioni su di essa. Un dato per riflettere: dal 1993 al 2000 la popolazione dei coloni nelle West Bank e nella Striscia di Gaza è quasi raddoppiata, proprio nell’intervallo di tempo che avrebbe dovuto portare ad un accordo definitivo di pace e risolvere le questioni cruciali (insediamenti, diritto di ritorno dei profughi e rifugiati palestinesi, sovranità di Gerusalemme, confini)! Pienamente giustificabili da parte dell’establishment di Gerusalemme sono le forti preoccupazioni nei confronti di un HAMAS che si sta avviando a guidare i palestinesi, data l’eredità di terrorismo che ha e una Carta che afferma di “strives to raise the banner of Allah over every inch of Palestine” e che “Israel will exist and will continue to exist until Islam will obliterate it, just as it obliterated others before it”. Quello che mi preme evidenziare è che Israele riconosca con i fatti i diritti dei palestinesi, oltre al riconoscimento formale dell'ANP. Gli oneri e le responsabilità poggiano su entrambe le parti in causa per giungere al compromesso e alla pace ma, credo, in diverso grado a seconda se si è occupante o occupato. Non si può continuamente minacciare o punire quest’ultimo, mentre si è indulgente con l’occupante o addirittura si mostra inazione o silenzio verso una colonizzazione che negli ultimi decenni continua a trasfomare il territorio palestinese.