lunedì, dicembre 03, 2007

Diritto internazionale vs negoziati politici

Ci sono stati diversi negoziati fra Israele, paesi arabi e palestinesi per tentare di comporre la conflittualità in Medio Oriente ma perlopiù hanno prodotto fallimenti, acceso gli animi delle popolazioni coinvolte, innescato e esacerbato veri e propri scontri. Ad esempio, dalla firma della Dichiarazione di principi di Oslo nel settembre del 1993 fino al 2000, Israele ha aumentato considerevolmente gli insediamenti (e annesse infrastrutture) nei territori occupati, raddoppiando la presenza dei coloni fino a 400'000 unità. Ma i negoziati, in sé positivi, possono cancellare la storia? Mi spiego meglio, sull'altare delle trattative si possono sacrificare miriadi di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, dell'Assemblea Generale, atti e principi fondamentali di diritto internazionale? Direi proprio di no. In dettaglio, ci viene in aiuto l'articolo 47 della IV Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra (1949):
"Le persone protette che si trovano in un territorio occupato non saranno private, in nessun caso e in nessun modo, del beneficio della presente Convenzione, nè in virtù di un cambiamento qualsiasi apportato in seguito all’occupazione delle istituzioni o al governo del territorio di cui si tratta, nè in virtù di un accordo conchiuso tra le autorità del territorio occupato e la Potenza occupante, nè, infine, in seguito all’annessione, da parte di quest’ultima, di tutto il territorio occupato o parte di esso."
E' evidente che in negoziati di pace esiste un forte squilibrio di potere fra l'occupante (Israele) e l'occupato (OLP), e questo articolo è stato inserito prorio con l'obiettivo di scoraggiare il primo a usare metodi e mezzi che per natura possiede, a limitare la discrezionalità di entrambe le parti, ma soprattutto a legalizzare politiche e fait accompli che confliggono con il diritto internazionale. Il punto centrale voglio che sia chiaro: l'asse centrale in un processo di pace complesso come lo è quello fra israeliani e palestinesi deve essere l'applicazione di norme internazionali, senza pregiudicare l'autodeterminazione del popolo palestinese. Politica e diritto anche in questo caso possono facilmente scontrarsi. Tuttavia, una pace duratura che affronti scottanti disaccordi può scaturire solo da concreti passi avanti nell'applicazione in buona fede di regole condivise dalla Comunità internazionale.

martedì, novembre 27, 2007

More sticks than carrots

Ecco una breve lettera ma di ampio significato inviata alla redazione dell'"Economist" a commento di un editoriale. Il contesto riguarda l'imminente inizio dei negoziati ad Annapolis, capitale del Maryland, per preparare una soluzione politica al conflitto tra israeliani e palestinesi. A molti osservatori, l'incontro patrocinato direttamente dall'Amministrazione Bush si risolverà in un nulla di fatto e diventerà solo l'occasione per foto di gruppo, timidi sorrisi e strette di mano. Relativamente libero da condizionamenti politici data l'impossibilità di ricandidarsi nel 2008, l'inquilino della Casa Bianca dovrà esercitare tutta l'influenza che detiene in modo da soddisfare i legittimi diritti dei palestinesi, a lungo negati, e creare tutti i presupposti per una coesistenza (obbligata) pacifica.
SIR - Have you read "The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy"? According to Walter Russell Mead ('Foreign Affairs'), "a fresh start in the peace process requires carrots, not sticks", but since 1967 to date every U.S. government granted Israel a big carrot, namely an unconditional financial, military and diplomatic support. In other words, it led a half million (East Jerusalem included) of settlers in the Occupied Territories in total disregard for the international law. In Annapolis ("Mr Palestine", November 24th), George Bush should wield more sticks than carrots to make the "vision" of a two-state solution into reality.
Nazzareno Tomassini

sabato, luglio 14, 2007

Da "perfidi ebrei" a "fratelli maggiori": i rischi del ritorno alla Messa tridentina

Con la pubblicazione della lettera apostolica Summorum Pontificum ("Dei Sommi Pontefici"), in forma di motu proprio, Papa Benedetto XVI ha facilitato l'uso della liturgia di rito tridentino secondo il messale romano promulgato da Papa Giovanni XXIII nel 1962, "mai abrogato". L'iniziativa di Ratzinger certamente ha l'obiettivo principale di ricucire la strappo con i seguaci tradizionalisti dell'arcivescovo francese Marcel Lefébvre, scomunicato nel giugno 1988, ma potrebbe anche essere, suo malgrado, foriera di fondamentali conseguenze nei rapporti tra Chiesa cattolica ed ebraismo.
Nel 1570, dopo il Concilio di Trento, Papa Pio V promulgò il messale romano che sostanzialmente rimase invariato, a parte la disciplina della notte di Pasqua e della Settimana Santa disposta da Papa Pio XII e la versione "emendata" di Papa Giovanni XXIII del 1962, fino alla revisione liturgica con cambiamenti di ampia portata decisa dal Pontefice Paolo VI nel 1969, in vigore dal 1970. Con questa premessa, cerchiamo di approfondire e capire meglio il rapporto tra la liturgia cattolica vigente e l'ebraismo.
Fino al 1959, alla preghiera universale del Venerdì Santo "per la conversione degli ebrei" il sacerdote pronunciava: «Preghiamo anche per i perfidi Ebrei, affinché il Signore Dio nostro tolga il velo dai loro cuori ed anche essi (ri)conoscano il Signore nostro Gesù Cristo. Dio onnipotente ed eterno, che non allontani dalla tua misericordia neppure la perfidia degli Ebrei, esaudisci le nostre preghiere, che ti presentiamo per la cecità di quel popolo, affinché (ri)conosciuto Cristo, luce della tua verità, siano liberati dalle loro tenebre» (Trad. latina: "Oremus et pro perfidis Judaeis ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum; ut et ipsi agnoscant Jesum Christum, Dominum nostrum. Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam judaicam perfidiam a tua misericordia non repellis: exaudi preces nostras, quas pro illius populi obcaecatione deferimus; ut, agnita veritatis tuae luce, quae Christus est, a suis tenebris eruantur"). Giovanni XXIII ha voluto, giustamente, eliminare l'aggettivo/sostantivo perfidi/perfidia dalla preghiera per evitare qualsiasi accostamento al significato assai denigratorio in italiano, benché il contenuto etimologico indichi mancanza di fede, incredulità nel non aver accolto la parola salvifica nella vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Lo svuotamento totale dell'antigiudaismo teologico (in opposizione all'antisemitismo) si ha, però, con Papa Paolo VI con la pubblicazione del nuovo messale romano nel 1970. Qui, la preghiera per gli ebrei del Venerdì Santo cambia totalmente formula e contenuto: «Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola, li aiuti a progredire sempre nell'amore del suo nome e nella fedeltà alla sua Alleanza. Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione. Per Cristo nostro Signore». A mio avviso, sono due preghiere appartenenti ad altrettanti riti liturgici pienamente equiparati da Papa Ratzinger, ma molto distanti nei loro significati, direi inconciliabili. Nel messale del 1962, nonostante siano state rimosse le parole perfidi/perfidia, rimane sempre l'intestazione della preghiera "per la conversione degli ebrei", assieme a termini ed espressioni offensive come "anche", "tolga il velo dai loro cuori", "cecità", "tenebre". Nella versione promulgata da Paolo VI, "espressione ordinaria" del rito latino, termini come "progredire" possono dare adito persino a ritenere che l'Antica Alleanza sia tutt'ora valida, creando non pochi problemi e confusione. Con il Concilio Vaticano II, soprattuttto grazie alla dichiarazione "Nostra Aetate" ("Nel nostro tempo") del 1965, la Chiesa ha intrapreso un cammino di riconcoliazione e dialogo religioso paritetico, sostenuto dalla riforma liturgica di Paolo VI e dalla prima visita di un Papa in una sinagoga nel 1986 a Roma, dove Giovanni Paolo II rivolgendosi alla comunità ebraica presente dichiarò: "Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo senso, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori". Così, se nell'arco di neanche trent'anni si è passato dal definirli perfidi per poi giungere a chiamarli affettuosamente fratelli maggiori, la volontà di Beneddetto XVI di liberalizzare l'antica messa tridentina segna un brusco stop dei risultati raggiunti e una regressione dei rapporti Chiesa-Ebraismo. E' necessario che la Chiesa chiarisca la questione in modo da riprendere il dialogo senza nessuna precondizione teologica, eliminando qualsiasi giustificazione che possa alimentare sentimenti antigiudaici.

domenica, marzo 11, 2007

Civiltà è riconoscere dignità alla Donna

Viene affermato da più parti che la cartina al tornasole per valutare il grado di civiltà di una società è il modo con cui questa tratta le donne e gli stranieri. Non c'è cosa più veritiera.
Il nostro etnocentrismo è un pericolo perché non ci fa capire appieno il mondo appena fuori i nostri ben limitati orizzonti, così gli stereotipi dell'immigrato, del "diverso", dello strano, conducono troppo velocemente a etichettare lo straniero come criminale, vagabondo, una persona su cui puntare il dito e basta. La diversità, che è insita, spesse volte non è sinonimo di opportunità e conoscenza ma di paura e discriminazione. Il nostro cervello preferisce percorrere strade corte, ed è più facile passare a delle superficiali conclusioni che aver voglia di conocerere e capire le complessità che sono dietro. In sostanza, è uno strumento di difesa. Per le donne il problema è diverso ma assai più doloroso. Qualche mese fa, ho letto che la causa prima di morte o menomazione permanente delle donne nel nostro opulento e benestante Occidente sia imputata proprio alla violenza familiare (marito, fidanzato, convivente, padre), addirittura prima del cancro e delle guerre. Una notizia che mi ha esterrefatto. Lo stesso concetto viene ribadito da una recente indagine sistematica dell'Istat che vi invito a leggere ("La violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro e fuori la famiglia", 2006). A mio parere, il dato più allarmante che emerge da questa ricerca riguarda la violenza psicologica e la relativa non consapevolezza del popolo femminile di essere vittime, o almeno di non valutare serenamente la violenza come causa di una denuncia alla magistratura. In altre parole, le donne sono vittime anche della società stessa in cui vivono, permeata di una cultura maschilista in cui l'uomo è padrone in ogni sfera (lavorativa, religiosa, nei mass media). Un dato spaventoso: "Nella quasi totalità dei casi le violenze non sono denunciate. Il sommerso è elevatissimo e raggiunge circa il 96% delle violenze da un non partner e il 93% di quelle da partner. Anche nel caso degli stupri la quasi totalità non è denunciata (91,6%). È consistente la quota di donne che non parla con nessuno delle violenze subite (33,9% per quelle subite dal partner e 24% per quelle da non partner)". Lo stato d'animo delle vittime che fa più riflettere è la vergogna, oltre alla paura. Occorre parlare di questo vero dramma, denunciarlo pubblicamente, sensibilizzare le persone che proprio all'interno della famiglia "cristiana" accadono e continuano ad accadere fatti di violenza contro le donne. E' inaccettabile. La Chiesa italiana e la Santa Sede non intervengano nell'arena politica italiana per difendere a spada tratta la famiglia o rigettare altri tipi convivenza, non si rendano complici di questa IPOCRISIA e della sofferenza di tante donne, predichino con più incisività l'uguaglianza e la piena dignità fra donna e uomo ("Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello, e non t'accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello" Luca 6,41- 42). Omettere è peggio che commettere, è più subdolo. Solo il fatto di riempire ogni 8 marzo di appelli per il rispetto dei diritti della donna è sintomo, secondo me, di un'enorme arretratezza culurale, di quanta strada si debba fare sul tema, ed evidenzia come ciò che dovrebbe essere scontato non lo è affatto. Nazzareno Tomassini

martedì, gennaio 02, 2007

Lettera alla giornalista Fiamma Nirenstein

La guerra come ordinaria follia

"Signora Nirenstein, sono fermamente contrariato per il suo articolo "la guerra che verrà" nel numero odierno di Panorama in edicola.

Senza voler entrare nel dettaglio, mi sembra evidente che Lei alimenti con questo articolo il dibattito di chi sostiene che ORAMAI siamo trascinati in un clima di guerra e conflitto permanente, già di per se stesso pubblicizzato dalla "guerra al terrorismo" americana. Lei parla sempre di nemici, terroristi/smo, guerre future e imminenti date per certe come se stesse chiacchierando al bar, che sò, di risultati sportivi. Mi piacerebbe, invece, che lei parlasse più spesso di diritti umani, diritto internazionale e umanitario, giustizia, tolleranza, cooperazione. Ponesse l'accento su questi aspetti. Con questo modo fare giornalismo istiga alla consapevolezza di credere che il mondo contemporaneo, soprattutto dopo i tragici avvenimenti dell'undici settembre 2001, viva in un clima di guerra permanente e di paura. La sicurezza come giustificazione di ogni comportamento. Tuttavia, credo che dobbiamo distinguere nettamente lo stato di guerra (l’eccezione) dallo stato di pace (la regola), e non appiattire il concetto guerra a un ornamento della politica internazionale. La Carta dell'ONU, dopo il tremendo massacro europeo e non del '900, intima a ribadire questo principio. Le sembra di ordinaria amministrazione, come ha scritto, che le autorità israeliane nei prossimi dieci anni si prefiggano "il compito di vincere una guerra di lunga durata e non convenzionale"? Sadicamente, sembrerebbe che si aspetti con ardore lo scoppio di un altro conflitto... In tal caso, perché? Cui prodest ("a chi giova")?

Lei elenca, giustamente, le minacce che incombono sulla sicurezza di Israele quali, Hamas, Hezbollah, Iran e Siria, ma si è mai chiesta cosa Israele può fare seriamente per la pace sua e dei suoi vicini, senza cercare ostinatamente la via dello scontro? Sono certo che qualche esempio saprà darmelo.

Queste sono questioni di tale complessità che non devono essere affrontate in modo semplicistico e superficiale. Coerenza e obiettività sono pilastri di un buon giornalismo al servizio della collettività. Si interroghi, rifletta e mi faccia sapere."

Nazzareno Tomassini