lunedì, agosto 25, 2008

Il carattere umanitario nel finanziamento agli insediamenti

Ma cosa c'e' di più politico di quello di incentivare gli insediamenti israeliani nei territori occupati palestinesi? L'Amminstrazione america continua incessantemente a dichiarare che la colonizzazione "minaccia" (vedi il post precedetente) il processo di pace e, allo stesso tempo, ci sono agevolazioni fiscali per tutti quei gruppi che finanziano tramite donazioni la realtà completamente opposta! E la giusticazione questa volta dove sta...? Nell'aspetto "umanitario" , "religioso", "caritatevole" di tale gesto, lodevole nel favorire economicamente gli insediamenti senza prendere in considerazione le conseguenze politiche e militari. Ridicolo. Penso che i territori occupati da Israele nel giugno 1967 siano punti fondamentali da districare e abbiano natura squisitamente politica proprio perché sono al centro dei negoziati fra le parti. Ritengo che la composizione demografica e la sua alterazione continua da parte di Israele sia assai politica se impedisce la nascita dello stato palestinese. Persino in altri tempi (siamo nel lontano 1979-80) il Consiglio di sicurezza ha affermato con diverse risoluzioni (446-452-465-471) che queste pratiche "non hanno validità legale". La Corte di giustizia internazionale ha stabilito nel parere consultivo (non vincolante ma altamente autoritativo) sulle conseguenze legali del muro israeliano che:
«the Israeli settlements in the Occupied Palestinian Territory (including East Jerusalem) have been established in breach of international law» [para. 120]
e sopratutto:
«All States are under an obligation not to recognize the illegal situation resulting from the construction of the wall and not to render aid or assistance in maintaining the situation created by such construction; all States parties to the Fourth Geneva Convention relative to the Protection of Civilian Persons in Time of War of 12 August 1949 have in addition the obligation, while respecting the United Nations Charter and international law, to ensure compliance by Israel with international humanitarian law as embodied in that Convention» [para. 163]
Nel leggere l'articolo "U.S. tax breaks help Jewish settlers in West Bank" mi sono ancora una volta e con amarezza mista a ilarità ironica come, dopo più di quarant'anni, non c'e' una volontà politica all'orizzonte che risolva il conflitto mediorientale. Riuscirà la pace dei leaders a stravolgere la politica dei fatti? A quale prezzo? O sarà troppo tardi?

domenica, agosto 10, 2008

«The Israeli hunger for land »

Quando il governo israeliano indice una gara d'appalto (tender) per la costruzione di alloggi nei territori accupati le reazioni internazionali sono sempre le medesime, condite di quell'eufemismo che riesce a offuscare la realtà: gli insediamenti "minacciano il processo di pace"(quale? quello dei leader politici mentre sul terrono i fatti sono estremamente diversi?), "mettono in pericolo i negoziati"; "creano un'atmosfera di sfiducia fra le parti", ecc. In altre parole, sono tutte dichiarazioni pubbliche che contengono verbi in cui in un futuro più o meno lontano la pace potrebbe diventare un miraggio. Tuttavia, si vuole trasmettere un messaggio che ancora è fattibile un'onesta pace.
A mio avviso, occorre nuovamente guardare la realtà e constatare come tutte queste affermazioni abbiano ormai superato da tempo il grado di anacronismo. Una pace concreta e possibile è effettivamente già un miraggio proprio a causa di questo molle atteggiamento della Comunità internazionale nei confronti dell'incessante colonizzazione israeliana, quella condotta di sterili parole che ha permesso a più di mezzo milione di coloni (incluso Gerusalemme est) di stravolgere politicamente e demograficamente il panorama geopolitico dei territori occupati.
In questo contesto, si inserisce in modo chiaro ed efficace questo articolo del grande storico israeliano Zeev Sternhell "Zionism's dying between Hebron and Yitzhar", in cui si sottolinea come Israele per intraprendere una pace di compromesso debba affrontare una spinosa problematica interna, uno Stato dentro uno Stato: i coloni. In un'altro articolo del maggio 1998, "Zionism’s secular revolution", mette in luce come la ragione profonda del "desiderio ardente" per la terra biblica risieda proprio nel nazionalismo ebraico, tralasciando o mettendo in second'ordine gli eventi occasionali, le circostanze e le oppotunità politiche e militari (ad es: la guerra dei Sei giorni) che hanno prodotto l'occupazione. Ecco un passo significativo:
«Jewish nationalism is scarcely any different from the nationalism of Central and Eastern Europe: ethnocentric, religious and cultural, immersed in the cult of an heroic past. It has no difficulty in refusing to others the same elementary rights which, in all tranquillity, it demands for itself. Thus Zionism, confident of its right to reclaim all the historic land of our kings and prophets, was unable to conceive that there could be any other legitimacy in the land of the Bible.
So we must ascribe the beginnings of our settlement of Arab lands to the very nature of our nationalism, not to the heady victories of war or the passing extinction of some humanist value. If we had just wanted to keep the territories as bargaining counters for peace, the day the Arabs were prepared to negotiate, why not have kept them under the rules of strict military occupation together with absolute respect for international law?»

martedì, agosto 05, 2008

Il consenso politico si costruisce sulle percezioni

Il governo ha messo in atto il piano di sicurezza inviando personale militare in gran parte delle grandi città italiane, provvedimento che concordo poiché è molto più utile mettere uomini e donne a controllare e pattugliare punti sensibili che farli rimanere in caserma. Un'utilità che solo la mera presenza eleva sia la deterrenza contro possibili infrazioni sia la percezione dei cittadini verso le istituzioni.
Un tema, quello della sicurezza, che è stato al centro delle recente campagna elettorale e abilmente cavalcato dai mass-media dove la consueta carrellata di morti, condita di lugubri sigle e interviste shock delle vittime, ha creato a mio parere un senso di insicurezza generale. Poco importa che diversi rapporti affermino come, ad esempio, Roma si collochi ai primi posti come capitale con meno reati: quello che conta è la percezione della realtà, che può a volte essere stravolta, e come crearla per i politici.
Oltre al problema sicurezza, vorrei sottolineare un'aspetto poco trattato ma puntualmente sottolineato dal Financial Times ("Italy gets tough on crime while neglecting corruption"): la vitalità della corruzione nel nostro paese. Il poco invidiabile dato compilato dall'organizzazione Trasparency International si attesta al 41° posto, dietro a paesi come il Botswana (38°) e il Qatar (32°), e a tutti i paesi dell'Unione europea prima dell'allargamento del 2004, eccetto la Grecia (56°).
clipped from en.wikipedia.org
Overview of the index of perception of corruption, 2007
Overview of the index of perception of corruption, 2007
blog it